di Antonella Cavallo
La prima volta che ho partecipato a un corso di scrittura terapeutica l’ho fatto con l’intenzione di avere un approccio più adeguato nei confronti delle persone detenute con le quali mi confronto da oltre dieci anni.
Sino allora avevo partecipato alla conduzione di progetti di scrittura condivisa, di teatro, di psicodramma e la Scrittura Terapeutica, secondo quanto mi sembrava di aver capito, sarebbe stato un valore aggiunto; avrei imparato a relazionarmi con loro in modo più appropriato.
Non avevo capito niente
Non so perché, non so da cosa avessi desunto tutto ciò. Il punto è che non avevo capito un granché. Quando mi sono seduta a quel tavolo ovale, circondata da sguardi sconosciuti, quando ho ascoltato le parole di Sonia Scarpante che introduceva il percorso che stavamo per intraprendere, quando ho ascoltato la sua ‘lettera a me stesso’ e ho capito che quello sarebbe stato un viaggio nel profondo della mia anima, della mia storia e che mi sarei esposta, condividendo il mio sentire, il mio cuore ha perso un battito.
Mi sono sentita a disagio come quando ti siedi al banco davanti a penne e fogli protocollo e ti consegnano i titoli dei temi per l’esame di maturità.
Non avevo paura di non saper cosa scrivere, temevo di dover scrivere ciò che in quel momento non ero pronta a condividere.
Ci vuole coraggio
Ci vuole fiducia in se stessi, nella persona che conduce il percorso e nei compagni di quel viaggio introspettivo.
Perché è quasi spontaneo scrivere di sé, ma diventa difficile scrivere a sé stessi? E con questo intendo riferirmi alla prima lettera ci viene chiesto di scrivere quando iniziamo il percorso di scrittura terapeutica, ovvero ‘Lettera a me stesso’. Le risposte sono diverse per ognuno di noi, ma ciò che è comune è la novità. Sono seduto attorno a un tavolo, ho un foglio bianco davanti a me, e mi devo scrivere qualcosa.
A volte ci capita di parlare da soli riflettendo su una decisione da prendere, su un discorso da preparare, su una risposta da dare, rimuginiamo su un episodio che ci ha colpito in modo positivo o negativo in un flusso di coscienza che scorre e tracima dagli argini del razionale.
Che cosa succede se invece di lasciare andare quei pensieri a ruota libera – piacevoli o penosi che siano – li fermiamo su un foglio?
La condivisione
Influenzati, a volte ossessionati da quell’antico proverbio: scripta manent, verba volant, affibbiandogli un’accezione negativa, temiamo il giudizio – in realtà a volte forse più il nostro che non quello altrui – quando al contrario può rivelarsi come l’opportunità di documentare i nostri diritti, l’importanza della nostra testimonianza per risarcirci, per riconciliarci con la vita e con noi stessi prima che con gli altri.
Ascoltando la condivisione delle lettere di chi si espone con coraggio al gruppo, il disagio iniziale si stempera, impariamo a lasciarci andare, a prendere confidenza col dolore altrui che si amalgama al nostro, seppure di diversa natura o entità, e poco a poco lasciamo emergere i nostri nodi, le nostre sofferenze, i non detti…
Il percorso è impegnativo, impervio, a volte doloroso, ma il risultato dona una benefica sensazione di sollievo.