DISAGIO E SCRITTURA TERAPEUTICA
di Silvia Maiocchi
Che cos’è il disagio
Ci sono molti modi per definire quello che si chiama “disagio”: può essere fare esperienza di una condizione o di una situazione sgradevole, ma anche della mancanza di qualcosa, di qualcuno.
Un disagio, dunque, si può vivere in presenza o in assenza di un’emozione, che può essere nel primo caso negativa, nel secondo positiva, o addirittura essenziale.
Non necessariamente il disagio è qualcosa da rimuovere a tutti i costi, anche con l’ausilio di farmaci. Spesso occorre sperimentarlo, perché è innanzitutto da ascoltare, permettendogli di comunicarci un suo messaggio. Per far questo però bisogna restare presenti, e nel presente.
Uno dei metodi più efficaci per ancorarci ad esso è la scrittura, che diviene terapeutica nella misura in cui veicola con onestà quello che ci anima nel momento: sentimenti, sensazioni, fantasie. Come battiti del cuore, le parole si susseguono tracciando un ritmo, ridonandolo alla vita.
L’autoterapia
“Per gli Antichi, la scrittura rappresentava uno strumento auto-terapeutico: non a caso gli Egizi credevano che fosse stata donata agli uomini da Thot, il dio Ibis, signore della medicina e delle guarigioni”, come ricorda Michael Morelli.
La scrittura terapeutica, così come viene proposta dal e nel Metodo di Sonia Scarpante, si disancora tuttavia dalla medicina in senso stretto, e dalla psicoanalisi, in quanto nasce da un’esperienza personale: Sonia -istintivamente e vigorosamente- ha usato la scrittura come risorsa spontanea per reagire alla grave malattia che l’aveva colpita e alla menomazione che ne è conseguita, intuendo che il male annidato nel suo corpo scaturisse non dalla carne, ma dall’anima. Sottolineo quest’ultima parola, anima, poiché -come ha osservato Bert Hellinger- si differenzia dalla psiche in quanto area di manifestazione di una nostra unicità, del nostro “senso”. Se usassimo una terminologia cabalistica, distingueremmo nefesh (gli istinti) e ruach (la consapevolezza), da neshamah (l’impronta divina).
Nella psicoterapia classica il terapeuta analizza la psiche del paziente, facendogli prendere coscienza dei nodi psichici, ed è il transfert che si attiva fra i due ad aiutarlo a superare i traumi emotivi.
Il metodo Scarpante: un coro senza corìfeo
Nel Metodo Scarpante non esiste la figura del terapeuta, poiché è chi scrive, accompagnato dal gruppo degli altri partecipanti, a esprimere liberamente, rivolgendosi a interlocutori viventi o defunti, reali o simbolici, ciò che il tema proposto gli sollecita. Come nelle antiche tragedie greche, dunque, ai protagonisti si affianca un coro (dove non c’è corìfeo) con funzione chiarificatrice, inducendo un distacco dalla visione abituale, introducendo diverse prospettive.
È dunque, quella del Metodo Scarpante, una terapia corale, che si differenzia dalla psicoterapia di gruppo per la “democraticità” della conduzione, che non si accentra in uno o un paio di facilitatori. E per il mezzo utilizzato: la scrittura infatti, a differenza dell’espressione puramente orale, viene letta al gruppo ma prende forma in un altro momento e contesto, il che garantisce un equilibrio dialogico fra l’intima riflessione o confessione e il confronto con gli altri partecipanti. Di più: è lo scrivente stesso a potersi distanziare prospetticamente da quanto espresso in precedenza, cosicché anche la rilettura dei propri scritti diviene altrettanto terapeutica.
In quest’esperienza, così eminentemente pratica, come si situa chi guida? Il facilitatore, come indica il termine stesso, è una presenza agevolante, non direttiva. Si è formato sul campo, attraverso i Master con cui Sonia Scarpante fa sperimentare il suo Metodo e soprattutto la sua presenza. Perché, e occorre sottolinearlo, Sonia non è una docente, ma una testimone: ha vissuto personalmente la trasformazione profonda che può operare la scrittura nel corpo e nello spirito, e quello che trasmette ai partecipanti dei suoi Master è il daimon del “guaritore ferito”, l’ardore della sua umanità, l’ispirazione data dalla sua dedizione entusiasta.
Solo il guaritore ferito può guarire
Jung ha scritto che “solo il guaritore ferito può guarire”, e su quest’affermazione dovremmo sostare a riflettere. Così come attraverso la sofferenza Chirone imparò l’arte della cura, Sonia dalla propria malattia ha attinto la forza, dirompente e sanante, di una scrittura che non mira all’estetica o alla correttezza, ma all’energia del rivelarsi, del dare sfogo, proclamando a gran voce la propria verità e unicità. La sua scrittura terapeutica non è da confondersi con quella proposta -qualificandosi nel medesimo modo- nei laboratori di scrittura. Sonia Scarpante non s’arroga competenze letterarie, non suggerisce tematiche inedite, ma dovrebbe pretendere il rispetto e l’ammirazione che si deve a chi ha affrontato, per impadronirsi del suo mezzo espressivo, un’iniziazione di tipo quasi sciamanico, attraverso la prova e il dolore. Lo stesso che le dovrebbero i terapeuti i quali, utilizzando la scrittura come un trattamento alternativo per far emergere i disagi dei loro pazienti, evitano di mettersi a nudo e in gioco come fa lei: quando all’esordio di ogni Master e di ogni gruppo che conduce legge una delle sue lettere più toccanti e sincere, per agevolare la confidenza reciproca e la fiducia dei partecipanti, spronandoli al coraggio.
La cura del sé
Al paziente di uno psicoterapeuta, così come all’allievo di un insegnante di un corso di “scrittura terapeutica”, non è dato sapere quali e quante sofferenze si celino dietro la loro abilità e competenza. Rischiano di restare perciò figure distanti, poco esemplari. Sonia Scarpante non vuole esporre teorie. Non conosce astrattamente il disagio ma lo ha affrontato, non possiede certezze ma stimola a cercarle insieme. I suoi strumenti sono l’accoglienza, un atteggiamento mai giudicante, un contatto affettuoso ed empatico con i partecipanti ai suoi Master e agli incontri che conduce. Nel cui svolgersi emergono tematiche importanti, delicate, sempre affrontate con grande attenzione.
Il suo Metodo ha la dignità di un’esperienza formativa interessante e coinvolgente: utilissimo strumento di prevenzione dei disagi dell’età evolutiva se proposto nelle scuole; adatto a circoscrivere problematiche o a fare emergere questioni che poi, eventualmente e personalmente, possono essere affrontate anche nell’ambito più specifico di una psicoterapia; particolarmente potente quando si rivolge a malati o detenuti.
Non a caso l’Associazione che ne è divenuta l’alveo, da lei fondata, si chiama “La cura del sé”: esprimendo il proposito di dedicare un’attenzione rigenerante a quel principio superiore dell’individuo che determina il suo destino e guida la sua condotta. Quello che l’Induismo definisce Atman, cioè la nostra più intima essenza. Prendersi cura di questo nucleo esistenziale è innanzitutto dargli voce, in un processo di autocoscienza che la scrittura esprime divenendo autoterapia, fecondo stimolo all’introspezione e deciso slancio ad affrontare qualsiasi disagio.